Articoli su Giovanni Papini

2007


Bartolomeo Di Monaco

rec. Giovanni Papini, "Un uomo finito"

Pubblicato in: BDM.
Data: 7 novembre 2007




   Quando Papini si accinge a parlare di sé, non è tanto quel bellissimo incipit che ci colpisce: “Io non sono mai stato bambino”, bensì questo pensiero che egli formula davanti ad una foto “piccina, sudicia e stinta” che lo ritrae bambino: “La mamma dice che son io a sett’anni. Può essere”. È questo “Può essere” a prendere le distanze dalla vita che “crediamo di conoscere”. Non la si conosce, ossia, e neppure la si riconosce, e si dubita. Ci si accorge, inoltre, e subito, che sarà la scrittura, la bella e saporosa scrittura toscana (alla quale tributerà un omaggio in uno degli ultimi capitoli), a dare alla storia autobiografica quel piacere che incatenerà tutti noi alla lettura. Qui infatti, a differenza che in Gadda – solo per fare l’esempio più clamoroso -, la parola ha il gusto del pane, è un’esigenza fisica spontanea come il mangiare, il nutrirsi. E non a caso. Questo adolescente che non è mai stato bambino cresce con il latte dei libri. Il primo mondo fantastico che conosce è quello dei libri, e la Biblioteca fiorentina – quando salirà quello scalone “largo e solenne, tremando” a dodici, tredici anni – sarà nientemeno che il suo paradiso: “io non ebbi piacere più grande né consolazione più sicura del leggere.” e: “Per me la realtà non era quella della scuola, della strada, della casa ma piuttosto quella dei libri – dove mi sentivo viver di più.” Non è, pertanto, l’autobiografia a segnare la strada di una rivelazione intima con la quale stiamo per entrare in contatto, ma questo contorto sentiero dentro l’anima che riesce ad insinuarsi, attraverso i libri (“tutto ingoiai e tracannai con la mia vecchia impaziente voracità”), nelle molteplici vite che sono appartenute a generazioni di uomini e nelle quali si va in cerca di un’epifania della vita che sia più vera di quella che può svelarci la nostra mera e fugace esistenza: “questa vita miserabile senza carnevali e senza fari […]. È tutta qui?”. Avvertiamo, così, in questa specie di confessione spirituale, la misura di una grandezza che discende direttamente da una tale dolorosa, schietta ed appassionata testimonianza resa, senza veli né vergogne, dal cuore di un uomo che pur doveva essere timido, misantropo e orgoglioso fino alla disperazione. Ciò che forse nessun uomo mai avrebbe potuto conoscere di questo solitario e scontroso essere umano, noi lo apprendiamo per effetto di un sortilegio che nasce dalla parola, reputata e condivisa quale dovizioso e profondo scrigno di verità: “E ognun di que’ libri chiudeva quel che cercavo”.
   Che cosa riesce a fare un’anima quando è denudata, tutta rivolta alla ricerca della bellezza e della poesia “prepotente e afferrante”, di cui solo si nutre per ascendere alla sublime grandezza! La campagna toscana, perquisita con una tale minuzia di sguardi che solo un altro toscano può cogliere ed intendere in tutta la sua raffinatezza, è l’altro luogo dove egli riesce ad avvertire il senso di infinito che pervade la sua anima, fino a farsene stordimento. Esplorazione nei libri, quindi, e incontro con la natura sono il viatico propedeutico alla sua ricerca e, come vedremo nel finale, al suo stupefatto “ritrovamento”. E gli è molto vicino il pensiero leopardiano (“Leopardi fratello”), tanto nella poesia che sorge da un sentimento prodigiosamente delicato in questo burbero fiorentino (si vedano lo stupendo ricordo, al capitolo 10, dell’amico Giuliano – uno struggente inno all’amicizia -, nonché l’omaggio ai geni del passato, “i grandi morti”, del capitolo 19. Per ragioni diverse, che attengono all’immaginifico, notevole è nel capitolo 25 la raffigurazione del Giudizio Universale), quanto nelle speculazioni del pensiero (“A te, filosofia, debbo tutto”) che ripetutamente e desolatamente cozzano con “il vuoto e il rinchiuso dolore” della vita.
   Ci si domanda per quale ragione Papini volle scrivere una siffatta autobiografia, che ha qualcosa di lacerante e tragico, in virtù proprio della sua non dissimulata e provocatoria, “colossale”, esasperazione (“Dovevo essere io il primo uomo della nuova umanità”), che induce a schivarla, specialmente quando ci si accorga che quel dolore rinchiuso altro non è che una inarrestabile e masochistica trapanazione del pensiero tout court: “V’immaginate ch’io non sia stato a spiare tutti i moti e i lampeggiamenti e i ritiri e i nascondigli e i tremiti e i palpiti più nascosti dell’anima mia?” Di ciò, un tale intelligente autore non poteva non rendersi conto, e non resta, allora, che dedurne che una tale vita rappresentata, in realtà non sia altro che una specie di cosciente paradigma che vale per tutti; un disvelamento di un processo che ci accomuna, al di là delle esemplificazioni dei singoli fatti; e, dunque, la vita è uno scorrimento interiore la cui direzione, sospinta dal desiderio della conoscenza, è verso la continua delusione, se non addirittura il fallimento, di ogni nostra crescita, che sempre si sminuzza e si arresta al cospetto di una finalità e di una mèta che, pur sembrando prossime, tanto più si allontanano e denudano la nostra vanità, la si chiami pure: “superbia diabolica, superbia divina”. Una scopertura, ossia – dopo che addirittura si è creduto che “il mondo son io!” e si è gridata la propria superba egocentrica considerazione di sé -, impietosa della nostra finitudine, cosicché quando ci sembra di essere vicini a toccare, vincitori, la divinità, come Mosè sulla montagna, ecco che ne discendiamo trafitti da un ritorno che è nientemeno che “una disfatta” e una rivelazione della nostra intima, irreversibile pochezza, la quale non è, perciò, del solo Papini, ma della specie umana: “c’è davvero qualcosa dietro la conoscenza oppure il nulla, come dietro la vita?”. Una tale dissezione della futilità e mutabilità del nostro pensiero (“Quel che importa qua dentro è la storia di un’anima” e: “quel che resta è il concetto, lo scheletro interiore e indistruttibile della verità”) è tale da lasciare tutti noi col fiato sospeso, da riceverne paura e sgomento – tanto è pervicacemente cercata, tormentata e ostentata fin nei paradossi -, giacché sentiamo bene che si parla anche di noi, delle nostre esaltazioni, delle nostre speranze, delle nostre insaziabili illusioni, insomma del nostro mutare col trascorrere degli anni, nutrito di sconfitte più che di successi, e questi ultimi sempre ingannevoli e vuoti. Questo insolito romanzo altro non è, dunque, che la storia di un moderno Prometeo incatenato (Papini stesso – con mio piacere – si definirà così: “un piccolo Prometeo”, verso la conclusione) che torna a dannarsi per noi e che nessuno libererà mai, questa volta, dalle proprie catene. L’autore ne è a tal punto consapevole che toccherà proprio a lui tentare una liberazione, quando scrive: “sento il bisogno di confessarmi a voce alta, per chi mi vorrà sentire.” E siamo noi, gli esseri umani, in cui arde il fuoco della “conoscenza”, che ci mettiamo in ascolto di questa voce orgogliosa ma anche innamorata, umiliata e pentita – “Non ci si fa ascoltare da quelli che non si vollero ascoltare” -, che vorrebbe essere perentoria, estranea – “Mi sono accostato a voialtri, uomini, eppure non vi amo” – e singolare – “Vi amo, uomini, come pochi vi amano. Tutta la mia vita interna è pervasa da questo profondo amore” -, e invece appartiene ad un uomo contraddittorio e superbo, debole e egoista, solitario e vanaglorioso – “Che m’ispiri Iddio o il demonio non importa” -, impotente e invasato di grandezza, pauroso e strafottente, “lieto e paradossale”, tremebondo e cinico, collerico e doloroso, che è in tutto simile a noi; un uomo che, dopo aver cercato invano in se stesso la strada maestra della grandezza, si sente perduto e grida la sua disperazione a tutti noi, uomini come lui, sapendo bene, infine, che solo la nostra razza può colmare quel bisogno “di un po’ di certezza”, allorché – come accade ai più – nella nostra vita di tutti i giorni “nulla è venuto e nessuno ha risposto.”
   Solo allora, dopo un tale grido, potrà accorgersi che “C’è qualcosa di più forte in me di tutte le sconfitte; c’è uno scoglio piantato nel mezzo della mia anima che resiste a tutte le tempeste che l’hanno ricoperto negli ultimi tempi.” E questo scoglio caleidoscopico che lo mantiene radicato alla vita – e che disegna in realtà una straordinaria parabola le cui linee, coincidenti sia in ascesa che in caduta, penetrano e si confondono nell’eterno, in una specie di moto perpetuo che conduce sempre ad una rinascita -, ha un nome vivificatore: il niente: “Per questa nobiltà, per questa grandezza, per questo ultimo e disperato coraggio, sfuggo nello stesso tempo alla morte e alla mediocrità.” Quando Papini scriveva queste pagine aveva passato da poco i trent’anni; forse la visitazione dei francesi nel 1906 gli accese quel fervore di scrittore maledetto che infiamma il suo pensiero perfino nei momenti in cui pare rafforzarsi il desiderio della resa, della sconfitta, ma quello che appare evidente, alla luce anche degli anni che ormai ci separano dalla stesura di questo romanzo anomalo, è che il suo proposito di mettere la sua giovane esperienza al servizio dell’uomo e soprattutto delle nuove generazioni fu dettato dall’umiltà e dall’amore, più che dalla superbia e dall’orgoglio: “Così sarà di me – come di tutti” e: “se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto.”


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